Il 21 settembre scorso si è celebrata la giornata mondiale dell’Alzheimer, istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Alzheimer’s Disease International (ADI) a testimonianza della crescita di un movimento internazionale che vuole creare una coscienza pubblica sugli enormi problemi provocati da questa malattia e che ogni anno riunisce in tutto il mondo malati, familiari e associazioni.
Oggi i malati di demenza senile sono stimati intorno ai 36 milioni nel mondo, un milione in Italia, di cui circa 600 mila colpiti dal morbo di Alzheimer; numeri destinati ad aumentare del 50% nei prossimi 20 anni a causa dell’invecchiamento della popolazione.
Per questo, in occasione della giornata mondiale dell’Alzheimer (istituita nel 1994 dall’OMS e dall’Alzheimer’s Disease International o ADI), il 21 settembre scorso tante sono state le manifestazioni e gli eventi organizzati in Italia e nel mondo per conoscere meglio la malattia, sensibilizzare il pubblico e fornire un servizio di informazione relativo alle risorse socio-sanitarie a disposizione, al fine di contrastare l’isolamento delle persone malate e dei loro familiari.
La Malattia di Alzheimer, la più comune forma di demenza, rappresenta una delle sfide sanitarie più grandi del nostro secolo e viene definita dal G8 come una priorità, con l’ambizione di trovare una cura entro il 2025.
Il morbo dell’ Alzheimer è la forma più comune di demenza senile, caratterizzata da un progressivo declino della memoria e di altre funzioni cognitive, uno stato provocato da un’alterazione delle funzioni cerebrali che implica serie difficoltà per il paziente nel condurre le normali attività quotidiane. Di fronte a questa emergenza sanitaria famiglie, medici, ricercatori, associazioni, istituzioni sanitari e aziende pubbliche di servizi alla persona sono chiamati ad agire insieme per dare risposte concrete ai bisogni dei malati e dei loro familiari.
Di seguito la situazione nel dettaglio, descritta in 4 punti fondamentali dalla Società Italiana di Neurologia.
I NUMERI
Nel mondo l’ Alzheimer colpisce circa 40 milioni di persone e solo in Italia vi sono circa un milione di casi, per la maggior parte oltre i 60 anni. Oltre gli 80 anni ne è affetto un anziano su 4. Questi numeri sono destinati a crescere progressivamente per il progressivo aumento della durata della vita, soprattutto nei paesi in via di sviluppo: si stima un raddoppio dei casi ogni 20 anni. Inoltre, sono circa 3 milioni le persone direttamente o indirettamente coinvolte nell’assistenza ai loro cari con demenza. I soli costi annuali diretti per ciascun paziente vengono, in diversi studi europei, stimati in cifre variabili da 9.000 a 16.000 euro a seconda dello stadio della malattia. Stime sui costi socio-sanitari delle demenze in Italia ipotizzano cifre complessive pari a circa 10-12 miliardi di euro annui, e di questi 6 miliardi per la sola malattia di Alzheimer.
GLI EFFETTI
Nei pazienti affetti da Alzheimer le cellule cerebrali subiscono un processo degenerativo che le colpisce in maniera progressiva e che porta inizialmente a sintomi quali deficit di memoria, soprattutto per fatti recenti, e successivamente a disturbi del linguaggio, perdita di orientamento spaziale e temporale e progressiva perdita di autonomia che viene definita come “demenza”. A tali deficit spesso si associano problemi psicologici e comportamentali, come depressione, incontinenza emotiva, agitazione, vagabondaggio, che rendono necessario un costante accudimento del paziente, con un grosso peso per i familiari. Essenziale dunque è la creazione di una rete assistenziale intorno al malato e alla sua famiglia che non li lasci soli ad affrontare il lungo e difficile percorso della malattia.
LA PREVENZIONE
Le sperimentazioni cliniche attuali sono rivolte alla prevenzione della malattia. Questo è oggi possibile perché sono da poco disponibili nuove tecniche che permettono di determinare le alterazioni di una proteina ritenuta la prima causa di malattia, prima che questa si manifesti clinicamente. Da vari anni è noto, infatti, che alla base della malattia vi è l’accumulo progressivo nel cervello della proteina chiamata beta-amiloide, che distrugge le cellule nervose ed i loro collegamenti. Queste tecniche permettono di stabilire un rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer prima della comparsa dei deficit cognitivi e rendono quindi fattibile l’avvio di strategie terapeutiche preventive attraverso un set preciso di esami: del sangue (per cercare molecole presenti solo nel plasma di chi è destinato ad ammalarsi anche 10-20 anni dopo), o della retina e di altri tessuti alla ricerca di anomalie predittive, fino a un software, il cui prototipo è stato messo a punto all’Università di Bari, in grado di predirla guardando le immagini fornite dalla risonanza del cervello di un individuo. A chi ha un rischio certo di malattia (perché con malati in famiglia) sono inoltre proposti esami quali la tomografia (PET, più costosa e non utilizzabile sulla popolazione generale) e l’esame del liquido cerebro-spinale (invasivo).
LE SPERIMENTAZIONI
Si tratta di molecole che determinano una riduzione della produzione di beta-amiloide, con farmaci che bloccano gli enzimi che la producono (beta-secretasi) o, in alternativa, con anticorpi capaci addirittura di determinare la progressiva scomparsa di beta-amiloide già presente nel tessuto cerebrale. Questi anticorpi, prodotti in laboratorio e somministrati sottocute o endovena, sono in grado di penetrare in parte nel cervello e rimuovere la proteina, in parte di facilitare il passaggio della proteina dal cervello al sangue, con successiva eliminazione. Queste terapie sono attualmente in fase avanzata di sperimentazione in tutto il mondo, su migliaia di pazienti nelle fasi iniziali di malattia o addirittura in soggetti sani che hanno la positività dei marcatori biologici (PET o liquorali). La speranza è di modificare il decorso della malattia, prevenendone l’esordio, dato che intervenire con tali molecole nella fase di demenza conclamata si è dimostrato inefficace.